LA CULTURA COME CONSAPEVOLEZZA
La cultura è e deve essere, infine, “consapevolezza” e, mi permetto di aggiungere, riflessività. In questa accezione vengono ad incontrarsi tutti i precedenti significati di cultura. Cosa significa cultura come consapevolezza? Significa innanzitutto capacità di mantenere uno spirito critico, riflessivo. Senza la riflessività, ovvero, come la definirebbe Giddens, la costante attenzione, il costante e ragionato monitoraggio del nostro agire e del nostro vivere in società, l’uomo rischia davvero di perdersi nel mare magnum del mondo globalizzato.
La riflessività è il correlato di una identità aperta, di una soggettività che sa tenersi in equilibrio tra la tentazione di smarrirsi nella superficie estetizzata ed esteticamente seducente del policromo e poliedrico mondo globalizzato, dove le differenze e le risorse, su menzionate, altro non sono che le occasioni per vivere solipsisticamente e narcisisticamente nuove esperienze, e quella di abbandonarsi, in ossequio al sempre maggior bisogno di radicamento, alle seduzioni del fondamentalismo.
In un mondo in cui il soggetto, nella sua individualità, si avvicina considerevolmente alla situazione limite in cui sarebbe l’unico artefice delle sue scelte e della sua esistenza, è necessario che egli sappia agire in modo responsabile. Ecco, in un certo senso la riflessività è la gestione privata della responsabilità, la capacità di chiedere costantemente al nostro agire di mantenere un’apertura all’Altro.
In fondo alla dimensione culturale affiora quindi la dimensione etica. Sì, perché il nuovo orizzonte in cui ci muoviamo non è di per sé il migliore dei mondi possibili, come alcuni autori di orientamento postmoderno affermano. Un contesto deistituzionalizzato, moralmente neutro (Donati-Colozzi, 1997; Bauman, 2000), senza regole ed imposizioni non è di per sé in grado di promuovere l’uomo e la democrazia.
Se da un lato è vero che la globalizzazione culturale aumenta le risorse in nostro possesso, mette a disposizione merci e prodotti sempre più interessanti, porta a riscoprire la natura dialogica e negoziale del vivere insieme, non è tuttavia di per sé in grado di far si che il dialogo non degeneri in monologo, che l’intersoggettività non diventi dominio, che le risorse e i prodotti dell’industria culturale e tecnologica non rimangano esclusivo vantaggio di una ristretta élite di nuovi ricchi creando, dall’altra parte, moltitudini di “nuovi poveri”.
In fondo alla cultura l’etica, in fondo all’etica la politica. Contrariamente ai fautori del liberismo assoluto, secondo cui lo Stato dovrebbe ritirarsi il più possibile per divenire cavalier servente dell’economia e della sua ricerca della maggiore flessibilità, ci sono le ragioni per credere che la politica abbia ancora la possibilità, anzi, il dovere di dire la sua. Come ricorda Magatti (Magatti, Giaccardi, 2001), la globalizzazione non segna il tramonto della politica in quanto tale, ma del modo tradizionale, moderno di fare politica. Lungi dal cedere alla rassegnazione, occorre quindi lavorare per gettare le basi di una nuova prassi politica in grado di far fronte alla complessità della società contemporanea.
Queste, insomma, paiono essere le principali sfide della globalizzazione. Se da un lato essa segna una frattura nel mondo occidentale e nella storia del suo sviluppo, aprendo, sebbene in maniera tutt’altro che evoluzionisitica, a nuovi scenari, dall’altro riconsegna il mondo nelle nostre mani. Quel sistema che ci eravamo abituati a considerare, in virtù della sua secolare durata, come l’assetto “naturale” del mondo si è rivelato essere, proprio in virtù del suo crollo, il prodotto di una precisa cultura, quella della modernità. Riscoprire come tutto ciò che ci tiene insieme abbia una genesi culturale significa in ultima analisi riscoprire l’uomo come artefice del mondo. E’ quindi alla cultura, ai processi che la attraversano che dobbiamo innanzitutto volgerci e da cui dobbiamo partire per riedificare una nuova etica e una nuova politica.