5 – Il racconto dell’attentato del 1 aprile 1980

4 – Lo stragismo e l’assalto al Circolo Perini del 1971

Che cosa è veramente accaduto in quel lontano 1° aprile 1980 nella sezione milanese della DC?

Ecco il racconto del “Servo di Kossiga, il gambizzato più iellato d’Italia”.

Il tragico appuntamento con la morte

Il 1 aprile 1980, giorno di Martedì Santo, mi recai nella sezione della Democrazia Cristiana “Luigi Perazzoli” in via Mottarone n. 5, Milano per assistere ad un incontro serale, riservato ai soci, sui risultati del XIV Congresso Nazionale del partito, da poco conclusosi.

Si sarebbe parlato e discusso sulla soluzione politica data alla crisi del governo Andreotti di “Solidarietà nazionale”, che era culminata con le sue dimissioni e con la nascita del Kossiga n. 2, dando vita ad una maggioranza parlamentare precostituita da (DC-PSI-PRI).

Ero tentato di andare ad una conferenza alpinistica, che si teneva all’Albergo dei Cavalieri in piazza Missori con i “Ragni di Lecco”. Optai, al contrario, per la manifestazione di partito anche perché figurava, come relatore l’on. Nadir Tedeschi, un dirigente del Consiglio Nazionale del partito al quale mi sentivo legato da profonda stima e amicizia, oltre che per la lunga militanza comune all’interno della DC.

Ero molto interessato a seguire l’incontro in quanto avrei potuto ascoltare, dalla viva voce di un protagonista del Congresso, le motivazioni per le quali l’area “Moro – Zaccagnini” e la sinistra del partito uscirono sconfitte dal dibattito congressuale di febbraio.

Si era, infatti, affermata la linea della “maggioranza del preambolo anticomunista dell’on. Carlo Donat Cattin e dei dorotei”, a scapito di quella di un governo di “solidarietà e unità nazionale”, voluto dall’on. Aldo Moro, prima che fosse sequestrato e assassinato dalle brigate rosse.

Il che certamente avevo, politicamente, mal digerito, soprattutto perché la DC aveva eletto, di conseguenza, l’on. Flaminio Piccoli, appartenente alla corrente moderata dei dorotei, quale suo Segretario nazionale.

Incontrai il relatore on. Nadir Tedeschi in via Mottarone vicino alla sua macchina, una Fiat 126.

Con lui scambiai un saluto e qualche rapida riflessione prima di entrare nella sede della sezione.

Il mio orologio segnava le ore 21,15.

La riunione ebbe inizio verso le 21.30, alla presenza di oltre 30 soci.

L’amico Tedeschi sedeva al tavolo della presidenza assieme ad Eros Robbiani, segretario di sezione, che ebbe il compito di introdurre l’argomento e presentare l’oratore che, per il suo impegno politico, era molto apprezzato.

Tedeschi rappresentava, all’interno del partito, quella componente di pensiero collegata alla classe lavoratrice e, quindi, capace di parlare agli operai delle fabbriche milanesi con incontri programmati dai sindacati.

Non ho l’abitudine di mettermi in prima fi la nelle riunioni o quando assisto ad incontri o dibattiti, ma quella sera, forse perché i presenti erano pochi, feci un’eccezione e mi piazzai ai primi posti.

Ad un tratto, mentre parlava l’amico Nadir Tedeschi, verso le 21.40, udii in fondo alla sala un frastuono.

Mi girai con la testa e vidi, all’improvviso, comparire quattro giovani: tre uomini e una donna.

Gli intrusi, che irruppero nella sede, portavano un bavaglio, erano incappucciati e impugnavano pistole con in canna il silenziatore che, nella mia ingenuità, pensavo fossero microfoni per intervistarci.

Capii subito che erano terroristi ed ebbi un sussulto!

Due di essi rimasero in fondo alla sala con le pistole in pugno spianate: uno vicino alla porta d’ingresso e l’altro a metà del fondo sala, mentre la donna e l’altro giovane avanzarono, ponendosi al centro della sala e controllando il tavolo della presidenza e il pubblico dei presenti seduti nelle prime file.

La donna imbavagliata, che era il capo del commando, non aveva il cappuccio, ma portava un basco che le scendeva su tutta la fronte, sino alle ciglia.

Con tono perentorio, ci intimò: “mani in alto e non muovetevi! Siamo le brigate rosse, non reagite e arrendetevi se non volete che accada una carneficina”.

L’intimidazione fu ripetuta più volte di fronte all’incertezza e alla titubanza di qualche amico, che ritardava ad alzarle. I presenti terrorizzati, muti e inermi, alzarono le mani e non reagirono per evitare la sparatoria e il bagno di sangue. Il gruppo di fuoco delle brigate rosse era infatti guidato da “Pasqua Aurora Betti” che, come mandante di Mario Moretti ancora capo colonna, eseguì la rappresaglia contro la sezione DC, per l’uccisione dei quattro terroristi avvenuta a Genova, nel covo di via Fracchia, quattro giorni prima, cioè il 28 marzo.

Il capo di questi terroristi, Riccardo Dura, della colonna genovese, era il killer dell’uccisione del sindacalista Guido Rossa, operaio dell’Ansaldo.

Come si sa il marchigiano Mario Moretti fu arrestato a Milano, per il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro, soltanto il 4 aprile del 1981. All’epoca della rappresaglia era ancora il capo indiscusso della colonna brigatista milanese e, quindi, responsabile morale e mandante dell’attacco proditorio alla sezione della DC.

L’altro terrorista, di media statura, si faceva chiamare col nome di battaglia “Silvio” e come primo gesto obbligò una decina di soci, compresa una donna attempata, ad alzarsi in piedi e li spinse, spalle a muro, in fondo alla sala, ove si trovava un modesto palcoscenico, come se volesse sequestrarli.

A questo punto iniziò una meticolosa perquisizione proletaria, cioè una razzia di oggetti personali: portafogli, patenti, documenti, soldi, orologi, chiavi di casa. Durante la perquisizione la donna iscritta, che faceva parte del gruppo costretto a stare in piedi, fu colta da malore e invitata a sedere. Qualcuno dei presenti chiese di poterla soccorrere con un bicchiere d’acqua, ma i terroristi si opposero.

Io ero nel gruppo dei soci rimasti a sedere sotto la minaccia dell’arma impugnata dalla donna e dal terrorista che si era dato il nome di battaglia “Silvio”. La donna ci tranquillizzò dicendo: “non preoccupatevi, andremo via presto; non ci interessano i vostri soldi, ma solo i documenti!”

In quella tragica situazione l’unico gesto che mi era consentito consisteva nel movimento della testa per osservare quello che succedeva alle mie spalle. La prima cosa che attirò la mia attenzione fu che la terrorista reggeva in mano una pistola più lunga del normale con una canna lucente e metallizzata, come se avesse un microfono (seppi dopo che era il silenziatore). Mi sforzai di guardarla bene per fissare nella memoria alcuni particolari.

La donna portava in testa un basco di lana multicolore che le scendeva sino alle sopracciglia, mentre una lunga sciarpa colorata le avvolgeva il collo e parte del viso, fungendo da bavaglio. Era piuttosto bassa di statura, snella, ma non smilza. La donna continuava a pronunciare frasi insultanti e minacciose:

-“ E’ anche colpa vostra se gli sbirri di Kossiga hanno ucciso i nostri quattro compagni a Genova!” (evidentemente si riferiva ai quattro terroristi uccisi il 28 marzo 1980 a Genova, nel covo di via Fracchia).

Fu a quel punto che l’amico Luigi Martinez, un socio della sezione seduto alle mie spalle, borbottando mi apostrofò con la seguente frase di rimprovero:

– Vedi, Iosa, che succede quando si dà retta ad ascoltare questi giovani, che frequentano il tuo Circolo?

Dopo avere depredato il primo gruppo di soci, “Silvio”, con la rapidità di uno scoiattolo, passò alla perquisizione di tutti gli altri amici rimasti seduti. Si trattò di “un repulisti” minuzioso e accurato a tal punto da suscitare insofferenza da parte di qualche amico, che si vedeva derubato di tutti gli oggetti personali.

A me portarono via persino la tessera del tram, le chiavi di casa, la patente, soldi, portafoglio, orologio e tre pubblicazioni del Circolo culturale Carlo Perini. Quando “Silvio” mi si avvicinò per il suo “esproprio proletario da ladrone”, feci il tentativo di avviare un colloquio e balbettai:

“Prendi pure tutti i documenti, eccoli sono a tua disposizione!

Egli borbottò: “anche tu qui bella faccia!” e, lesto, mi sottrasse ogni oggetto che avevo nelle tasche. Mentre “Silvio” proseguiva la perquisizione, che durò una decina di minuti, entrò una coppia di soci ritardatari (Giuseppe Orsenigo e la moglie) che furono bloccati, minacciati, scaraventati a centro della sala e, infine, obbligati ad alzare le mani come gli altri. A questo punto il panico divenne generale e la tensione salì.

Silvio smise di colpo la perquisizione, corse in fondo alla sala e, resosi conto che anche i due nuovi entrati erano stati immobilizzati, proseguì la sua azione di razzia.

Nel frattempo, la donna, che ci teneva sotto il tiro dell’arma, urlò minacciosamente:

“la nostra è un’azione di rappresaglia contro questo covo democristiano per i morti di Genova, onore ai compagni caduti e ricordatevi che quando il popolo è armato di questa (e mostrava la pistola) per voi è finita!”

Terminata l’operazione “perquisizione o spoglio”, Silvio depositò gli oggetti rubati e raccolti in un sacchetto ad un suo compagno e, poi, estrasse dalla borsa una bomboletta spray e scrisse sotto la lapide, che ricorda “Luigi Perazzoli” (un martire cattolico della Resistenza partigiana e che aveva sottostante una mensola sulla quale era posta una sua foto e una raffigurante l’on. Aldo Moro):

“Onore ai compagni ca…”. Seguiva il disegno della stella a cinque punte con la scritta b.r.

Silvio avrebbe voluto scrivere i nomi dei 4 terroristi uccisi a Genova, ma in quel frangente, né lui, né i suoi compagni li ricordavano. La donna agitata e nervosa, per il trascorrere del tempo, ripeteva: “Silvio fa presto!

Silvio, sbrigati!” E costui replicava “ancora un momento”.

Intanto, in fondo alla sala, il quarto brigatista estrasse da una borsa una macchina fotografi ca e uno striscione con la scritta “Brigate rosse” e lo diede da reggere proprio alla coppia ritardataria, invitando tutti gli altri presenti a posare dietro lo striscione per una foto di gruppo, per comprovare l’avvenuta rappresaglia in quello che i brigatisti ritenevano essere un covo della DC.

La foto apparve infatti il giorno dopo nel volantino di rivendicazione dell’azione terroristica alla sezione di via Mottarone in Milano, con truculenti parole inneggianti alla lotta armata e con deliranti motivazioni contro i democristiani nemici e affamatori del popolo.

Fu allora che “Silvio” confabulò con i suoi e partendo dal fondo della sala mi si avvicinò, scegliendomi per primo e dicendo:

– “Tu (io), voi due (indicando Nadir Tedeschi ed Eros Robbiani) e tu (indicando Emilio De Buono seduto due fi la dopo di me), presto accomodatevi in fondo!”e fummo sospinti, con le mani alzate, verso il palcoscenico, cioè in fondo alla sala, verso l’uscita.

Con i tre amici prescelti mi avviai lentamente verso il luogo indicato.

Qui i terroristi intimarono d’inginocchiarci. Eravamo stati prelevati in quattro e subito pensai ad una esecuzione sommaria, all’appuntamento con la morte.

La paura per un attimo scomparve, mi feci coraggio e mi diressi verso il terrorista che mi era vicino, il famigerato “Silvio” (che seppi dopo chiamarsi Roberto Adamoli, un giovane che frequentava il mio Circolo culturale Carlo Perini e che una sera interruppe il dibattito gridando con “la DC non si dialoga, ma si spara”), che subito mi apostrofò:

– Che cosa hai da dire tu bella faccia?

– Ho moglie e bambini, non spararmi!

E puntandomi la fredda canna della pistola alla tempia sinistra, prontamente replicò:

– “Inginocchiati stronzo, verme democristiano che inganni i proletari e i sottoproletari dei quartieri popolari di Milano, facendo cultura, attraverso il tuo Circolo Perini, per il sistema politico dominante!”

Tutti gli altri amici erano immobili, con le braccia alzate, prigionieri delle b.r. e sotto il loro tiro.

Per fortuna nessuno di noi prescelti s’inginocchiò. Mi accostai pian piano al palco, senza però inginocchiarmi, benché terrorizzato, volevo morire in piedi.

Silvio mi era di fronte ad un metro di distanza, lo guardai in faccia nell’attimo in cui diede un segnale e mi sparò quattro rapidi colpi di pistola: una pallottola trapasso la gamba sinistra, le altre tre la gamba destra, gridando: “Ecco quello che merita il servo di Kossiga!”

Udii distintamente gli spari ovattati dal silenziatore della calibro “7,65”.

Crollai a terra in una pozza di sangue, urlando “Mamma mia, mamma mia!”

Sentii poi un grande calore agli arti inferiori (i dolori indicibili giunsero qualche ora dopo), mi venne un forte giramento di testa, non svenni, ma persi la cognizione del tempo.

Contemporanea alla mia esecuzione, gli altri terroristi scaricarono le loro pistole contro Robbiani, Tedeschi e De Buono, gridando anch’essi “Questo è quello che meritano i servi di Kossiga!”

Fu una sparatoria fulminea!

I brigatisti si diedero poi a precipitosa fuga, scappando in strada ove li attendevano i complici in macchina per fuggire e lasciando sul “campo” 26 bossoli e una barba posticcia caduta dal mento di uno di loro.

Erano trascorsi in tutto 15 minuti dall’inizio dell’irruzione alla sparatoria nella sezione. Gli amici presenti erano stati costretti, impotenti, ad assistere ad uno spettacolo disgustoso e bestiale.

Non poterono fare nulla contro quella malvagità umana feroce e gratuita, personificata da giovani che, spavaldamente, avevano minacciato gli altri presenti prima della nostra esecuzione:

“nessuno ci insegua, altrimenti lo ammazziamo come un cane!”

A quel punto mi venne spontaneo abbassare lo sguardo e guardarmi le gambe. Erano immerse in copiose chiazze di sangue, che si mescolavano a quello di Robbiani, che giaceva immobile, con gli occhi sbarrati, alla mia destra.

Ricordo pure distesi a terra gli amici Nadir Tedeschi ed Emilio Buono.

Il mio giramento di testa divenne sempre più vertiginoso, mi sentivo imbambolato e non capivo più niente, udivo, però, distinta la voce di Tedeschi, che incoraggiava i presenti a prestarci soccorso.

Seguì un accorrere affannoso degli amici per aiutarci. Non so quanto tempo sia rimasto in quella posizione.

Qualcuno mi si avvicinò, mi sfilò la cinghia dei pantaloni e la cravatta e mi legarono i polpacci, come lacci emostatici, mentre il sangue continuava a sgorgare a fiotti dalle ferite ad entrambi gli arti inferiori.

Fu allora che mi venne l’ossessione della famiglia e cominciai a gridare:

– “telefonate a mia moglie e pensate ai miei bambini!”

Non ricordo quante volte abbia ripetuto, urlando, questa frase; smisi solo quando fui adagiato in una barella della Croce Viola per essere trasportato al pronto soccorso dell’Ospedale Fatebenefratelli.

Questa mia reazione ossessiva di pensare soprattutto ai bambini era motivata dal fatto che, sin dal primo momento in cui mi ero visto prescelto, intuii che le b.r. mi avrebbero sparato e probabilmente ucciso.

Mi assalì quindi il terrore della morte, poi subentrò un fugace pensiero religioso con un tentativo di atto di contrizione, fui però assillato, immediatamente, dal pensiero dei miei due bambini: il primo Davide che aveva 10 anni, l’altro Christian che non aveva ancora compiuto i 7.

Proprio il pensiero dei bambini mi diede la forza di parlare con quel killer agile e spietato, che si faceva chiamare capitan “Silvio”, che mi puntò la pistola alla tempia sinistra e, qualche minuto dopo, mi sparò.

Udii, una decina di minuti dopo gli spari, il sibilo della sirena dell’ambulanza, il vociare concitato della gente attorno senza distinguerne i volti. I barellieri corsero affannosamente e mi adagiarono sulla brandina, per essere trasportato all’Ospedale Fatebenefratelli, ove giunsi alle 22.25.

Ricordo, infine, che durante il tragitto venivo confortato dai militi della Croce Viola, che si sforzavano di tranquillizzarmi e di farmi parlare, chiedendomi notizie sulla famiglia, sul mio lavoro, sul mio impegno civile e culturale.

I barellieri scuotevano mestamente la testa e mi dicevano: “Coraggio stiamo per arrivare in ospedale! Vedrà che tutto andrà bene! Lei è un credente e, come cristiano, devi farsi coraggio e avere fiducia nel buon Dio, ma questi terroristi che ti hanno ferito sono veramente dei delinquenti! Disumani!”

6 – RIVENDICAZIONE BR ATTENTATO IOSA